Categoria: Strumenti di base

  • Il potere del volere

    Il potere del volere

    Cosa ci muove all’azione?

    Potremmo pensare che sia la volontà a muoverci ad agire. E sarebbe meraviglioso, io voglio, io agisco. E se fosse così semplice e fossimo così onesti nel nostro sentire, non avremmo difficoltà a Star Bene nel nostro vivere. Avremmo probabilmente meno pesi, pensieri, rammarici, rinuncie, e così via.

    È una cosa semplice “voglio -> agisco” e semplice, spesso non è da tutti, non è facile.

    “Mamma esco con gli amici.”

    “Torna per le 22.00.”

    “Dai le 22, voglio tornare per l’1.”

    L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re! Ho detto 22!”

    “Ma alle 22 sono ancora tutti fuori facciamo almeno mezzanotte…”

    E così via, ciò che vuoi viene prima vagliato dalle regole sociali, di famiglia, quelle che poi ti crei da solo.

    Altro esempio.

    “Prof. posso andare al bagno?”

    “No! C’è appena stato l’intervallo,
    vuoi solo uscire a farti una passeggiata.”

    “E perché non posso farmi una passeggiata?
    Poi torno e faccio l’esercizio”

    Prima il dovere e poi il piacere!”

    Questo accade durante la nostra crescita, quando desideriamo qualcosa, ci viene insegnato a passare dal filtro del “posso e non posso”. E il volere qualcosa diventa “Posso volere quella cosa?” Sì, bene allora la voglio e agisco. No? Va bene allora mi sposto su un compromesso o su altro. Ma se era veramente la prima cosa, quella che volevo, quella che mi piaceva davvero, mi sarò spostato dal mio centro per cercare un compromesso, un’azione giusta, adeguata, sicura, condivisa, diligente, responsabile…

    Intanto mi allontano da me.

    A mia figlia ho chiesto “Si possono mangiare le patatine al bar?”, e lei mi ha risposto “Sì, ogni volta che si vuole!”.

    E quella è la chiave: “Ogni volta che si vuole“.

    Ci farebbe un gran bene lasciare andare il si può o non si può, si fa o non si fa, è giusto o è sbagliato… per dare spazio a “Lo voglio?”. Ma quel “Lo voglio” profondo, connesso con la mia essenza, l’anima, lo spirito. Quel volere le cose che mi piacciono per davvero e imparare a riconoscerle.

    Ogni volta che penso di volere una cosa, una situazione, una soddisfazione, dovrei fermarmi – almeno qualche secondo – e chiedermi “Perché la voglio?” e ascoltare la risposta, aprire verso la risposta, che parlerà con una voce sottile, flebile, sotto il brusio chiassoso dei pensieri più attivi.

    E quel perché potrà guidarmi.

    E non devo essere spaventato dalle risposte, perché se scavo abbastanza a fondo, sotto quel brusio, non avrò pensieri di invidia, vendetta, arroganza… non dovrò pensare se quella mia azione rispetta o meno l’altro. Perché in quello spazio c’è il rispetto per me stesso, per la vita, di conseguenza anche per l’altro.

    Voglio andare al mare. – Perché? – Perché è estate… ok, fermati, ascolta quel “perché” magari vuoi andare 3 giorni in un eremo, o una sera in discoteca, o partire per un viaggio solo con sconosciuti.

    Voglio andare al mare. – Perché? – Perché ci son nato al mare, e ogni volta che mi sento scarico, so che sull’arena, l’aria, la brezza, la salsedine mi ricaricano. E poi ho una domanda, che posso fare solo al mare.

    Allora vai, non aspettare nemmeno un secondo di più.

    Indagare il nostro volere, ci riconnette con il nostro desiderare e il nostro sognare. Forse volere non è potere, ma riconnetterci a quel volere profondo, essenziale, onesto – probabilmente – è ESSERE.

  • Quante realtà viviamo?

    Quante realtà viviamo?

    Naturalmente se cerchi una risposta a questa domanda, non chiedere a me. Perché scrivo naturalmente? Perché per me, non appena diamo una risposta a questa domanda, la riposta – per quanto corretta possa essere nel momento in cui l’abbiamo pensata – diventa sibillinamente sbagliata.

    Come in un gioco di calamite, quando cerchi di metterne una sull’altra, se l’altra è della stessa polarità cambierà posizione repentinamente. E se non ne conosci la ragione, ti sembrerà di impazzire perché ti dirai: “Ma era qua!”, “Ma era qua!”, “Hey ma era qua!”… È un gioco strano e in questo caso non ci è dato nemmeno di conoscere il meccanismo, possiamo arrivare forse a intuirlo o a intenderlo, ma senza la possibilità di farlo nostro in modo ragionevole e ragionato.

    In questi casi – per me – è molto meglio stare nella domanda. Altrimenti il contenuto dell’articolo sarebbe stato: “boh!”, ma forse sarebbe stato troppo breve…

    Allora provo a stare nel perché mi venga da indagare questa domanda. In primis, nasce da un fine settimana di formazione, all’interno del quale ci siamo proprio tuffati nel tema della multidimensionalità. E non a livello informatico o di realtà aumentata, ma a livello umano, universale e spirituale. Poi perché è un tema che mi sta abitando da un po’ di tempo, in un certo senso l’ho sempre avuto a cuore, e ogni incontro che mi permette di ritrovare un pezzettino di me, mi racconta qualcosa di nuovo e di eterno insieme.

    Tante belle parole vero? Ma in definitiva?

    Beh in definitiva niente, perché non c’è nulla di definito in questo tema, si intuiva all’inizio, no? Potremmo – forse – raccoglierlo in un aforisma poetico, che amo particolarmente:

    E ora fatemi filosofeggiare un po’

    Se l’incertezza è il clima della nostra anima e l’anima riverbera con l’anima del nostro bellissimo pianeta (e oltre), all’ora l’incertezza deve essere il clima dell’universo. A questo punto se tutto è incerto nulla è certo, ma se picchio il ginocchio contro il tavolo urlo dal dolore e questo è certo, allora se tutto è certo, nulla è incerto?

    E qui potremmo iniziare a intuire e intendere come – sul nostro piano duale – gli opposti siano spesso facce della stessa medaglia, dello stesso dualismo: luce-buio, bene-male, giusto-sbagliato… Così, se certo e incerto (che è la negazione di certo: in-certo) son due facce dello stesso dualismo, allora questa realtà ce la raccontiamo vedendola da una sola faccia.

    Se inizio a percepire l’altra faccia (ancor prima di raccontarla) ecco che si dovrebbero aprire altri piani di realtà, ma là dove ce n’è uno ce ne sono – forse – infiniti? E anche in-finiti (come negazione di finiti) è una faccia di quel duale che esiste tra finito e infinito, ma che è molto difficile afferrare con la parte razionale e logica del nostro ragionare. Meglio non farlo, potremmo impazzire e non è il caso, ma andiamo avanti.

    Allora la domanda: “quante realtà viviamo” diventa davvero interessante. Interessante più come indagine: come se diventassimo indagatori del dubbio, di quell’incertezza che mette in dubbio e apre. Apre a nuove realtà e ogni dubbio, al posto di dare nuove risposte e nuovi schemi, può dare nuovi piani di realtà e nuove incertezze. Così il nostro procedere diventa infinito, eterno.

    A un certo punto potremmo smettere di cercare risposte e conferme, e rimanere eternamente – appunto – nel divenire incerto di ogni attimo, ma quel giorno – forse – arriverà per chi non abiterà più questo corpo e questo tempo. Per noi, ben venga la fatica e a volte la paura, dell’incertezza – che in una nuova consapevolezza può essere vissuta, anche, con più leggerezza, ma va comunque vissuta.

    Se sei arrivato in fondo e la tua risposta rimane un numero definito di realtà, che sia una o più, va benissimo. Ci incroceremo nei piani comuni e ci lasceremo negli altri. Portando con noi quell’esperienza che ci ha resi e ci rende chi siamo.

    In fondo, nulla è per sempre, e solo questa frase – per me – è un potentissimo strumento di esistenza, ma te ne parlerò un’altra volta: promesso!

    Alla prossima.

  • Cosa ci rende felici, oggi?

    Cosa ci rende felici, oggi?

    Sulla felicità potremmo parlare per il resto dei nostri giorni e scoprire sempre qualcosa di nuovo, capace di portare maggiore gioia nel nostro quotidiano. Per questo, quanto dirò in queste poche righe non potrà mai essere esaustivo dell’argomento. È un semplice punto di vista, un granello nell’arena dello star bene, del benessere, soprattutto per chi inizia a indagare questo spazio.

    La felicità e la gioia, sono luoghi in cui poter abitare per elevare i nostri pensieri e sentimenti e portare maggior benessere all’interno del quotidiano. Non è sempre facile, a volte impossibile perché dobbiamo attraversare una difficoltà, con la necessità di impararla, farla nostra, ma certamente può essere una bussola importante.

    Quando non siamo abituati a cercare la felicità e il pensiero positivo (che spiegherò meglio fra poco), rischiamo di vedere cosa c’è di sbagliato, cosa non funziona, cosa è peggiorato in una situazione, oppure la sua sfortuna, le avversità, i pericoli e le preoccupazioni, che porta. E questa modalità non ci aiuta a sintonizzarci con la gioia. Ci porta esattamente all’opposto, avvallando la credenza che la felicità sia effimera.

    Ma prima vediamo cos’è il pensiero positivo, visto sempre da questo punto di vista. È il pensiero di vedere la parte positiva di un evento, mantenendo la consapevolezza che esiste anche la parte negativa, e che positivo e negativo sono solo due poli, due cariche che noi diamo a un evento e non sono una migliore e una peggiore e abbiamo bisogno di entrambe: perché viviamo in un mondo duale, dove esistono due facce della stessa medaglia. Le parti negative se possono essere migliorate da noi, allora dovremmo prenderne atto e agire senza indugio, se non possiamo fare nulla direttamente, dovremmo lasciare ad altri, in fiducia. Le parti positive sono quelle che ci permettono di nutrire la nostra vitalità e farci crescere nella direzione che desideriamo. Non può essere tutto positivo, e il pensiero positivo non dovrebbe mai fare finta di niente rispetto a quanto noi consideriamo negativo, questo è importante. Dobbiamo usare ognuno di questi pensieri, per il nostro meglio.

    Perché farci guidare dai pensieri non positivi, cercare le parti che non funzionano, ecc. quasi mai è la via per star bene? Mettiamola così, se ho un problema e cerco la causa per risolverla, può andar bene, ma se di quel problema non so cercare la causa, ma so vedere tutte le avversità, senza poterle risolverle, tenere l’attenzione in negativo, non farà che far crescere quelle avversità nella mia mente e alla fine non vedrò nient’altro. Perché la mente è uno spazio finito e io seleziono cosa tenere in quello spazio, e ciò che seleziono mi condiziona. Per cui se porto alla mente i pensieri positivi, nutro quello spazio di gioia, di colori, di benessere e con molta probabilità andrò oltre, vedrò al di là del problema, scoprendo, spesso, una soluzione adeguata per me. Magari non del problema in sé, che abbiam detto non posso risolvere direttamente, ma del mio procedere sì.

    Se mi abituo a vedere in positivo tutto ciò che mi capita, se comprendo che nulla accade per caso e che per ogni evento c’è un mio passaggio necessario, allora avrò sempre più momenti in cui coltiverò gioia nei miei pensieri. E quando la mente pensa a cose felici, il respiro rallenta, e riempie i polmoni di ossigeno, i muscoli si rilassano, lo sguardo si apre, le labbra si distendono e noi riusciamo a sentire, percepire e raccontare di più e meglio.

    Un primo esercizio per chi desidera provare questo approccio è quello di fare spazio. Ogni volta che pronuncio qualcosa di negativo, come una semplice lamentela, o un’imprecazione, o una battuta sarcastica, mi fermo, faccio silenzio, respiro e mi chiedo “ho la possibilità di dire o fare qualcosa di concreto per agire una soluzione o una miglioria?”, se la risposta è sì, lo faccio e poi non aggiungo altro, e sposto i miei pensieri su altro. Se è no, smetto di parlare e sostituisco quel pensiero, e di conseguenza le parole, con qualcosa che per me è positivo. Relativo alla situazione o semplicemente cambiando discorso. E se non trovo nulla, sto zitto.

    Attenzione: se stare zitto mi fa aumentare la rabbia o la frustrazione, allora bisogna fare una fase di scarico prima. Ovvero dico tutto, mi lamento di tutto, tiro fuori tutto. Lo faccio con consapevolezza, sentendo se questa modalità mi porta a stare bene o se mi porta a volermi lamentare e arrabbiare di più. Di solito è la seconda, con questa consapevolezza in noi, possiamo poi iniziare l’esercizio descritto sopra.

    Una domanda che personalmente è stata importante per me, e che certamente non ho inventato io, ma che anni fa è arrivata da qualche dove, è: “Voglio avere ragione, o essere felice?“. È delicata perché di primo acchito può sembrare superficiale e arrendevole, ma è proprio in questa arrendevolezza, che io posso trovare la mia felicità. Magari prossimamente scrivo un articolo sull’arrendersi, un tema delicato e profondo insieme, e direi anche necessario al giorno d’oggi.

    Ma intanto proviamo a sperimentare la percentuale di pensiero positivo che riusciamo a mettere nel quotidiano e vediamo se nell’arco di un mese qualcosa migliora?

    Vi porto un esempio di due persone che abitano nello stesso quartiere. Uno è un carabiniere, mentre l’altra una poetessa. Il primo ha a che fare tutti i giorni con la delinquenza, ragazzi giovani in giri di droga o alle prese coi primi furti, gente ubriaca che fa incidenti in auto e così via; la seconda passa in silenzio a osservare le cime degli alberi, fa laboratori di scrittura con alcuni ragazzi del quartiere, medita e quando c’è occasione dà una mano al prossimo. Il primo ti racconta di come la città vada sempre peggio e che i giovani sono allo sbando, che nessuno rispetta più le regole e che si muore per ragioni futili. La seconda ti racconta di quanta speranza riponga nelle nuove generazioni, che ha conosciuto anime vive e che la natura è la nostra salvezza e che la vita è meravigliosa. E non dobbiamo pensare che il primo non conosca le parti belle della vita nel suo quartiere, ma in almeno metà della sua giornata vede solo le parti brutte. Mentre la seconda, sente al bar degli eventi nefasti che accadono, ma riempie almeno il 50% del giorno di poesia, silenzio e bellezza.

    Noi possiamo scegliere se essere carabinieri o poeti dei nostri pensieri. Non cambieremo come va il mondo, ma possiamo cambiare come andiamo noi nel mondo e avere una nostra bolla di realtà. Ma anche della bolla di realtà dobbiamo parlare in un altro articolo: è qualcosa di meraviglioso.

    Intanto se ti fa piacere, prova a sperimentare l’esercizio che ho scritto più sopra o semplicemente a portare queste considerazioni nell’osservazione del tuo quotidiano.

    Spero ti unirai anche tu a indagare come portare sempre maggiore felicità e benessere nel quotidiano.

    Ci sentiamo alla prossima!

  • Il Respiro e l’ascolto

    Il Respiro e l’ascolto

    Il respiro nella comunicazione è qualcosa di necessario e fondamentale. È necessario perché senza non saremmo in vita, tanto per cominciare, e poi perché è proprio il respiro che porta fuori il suono, non da solo, ha degli aiutanti preziosi, ma ne è il veicolo. È fondamentale perché se respiro bene, parlo bene.

    Quest’ultima cosa non è da sottovalutare, perché respirare bene è molto difficile, è un esercizio quotidiano.

    Ci siamo costruiti una società e una modalità di vita che fa di tutto per rendere il respiro più corto, mandarlo in apnea o affievolirlo, ad esempio, e questo non aiuta a parlare bene. Mentre se osserviamo i neonati, hanno un respiro perfetto. Il pancino si gonfia e quando piangono o urlano, li senti inequivocabilmente. E il suono arriva pulito e potente. Non li puoi ignorare.

    A questo punto dovremmo cominciare a concordare sul fatto che respirare bene, non è scontato e che necessita un allenamento, una consapevolezza e una volontà. E se arriviamo a risolvere tutti i blocchi del respiro, si sarà liberata anche la nostra comunicazione. Naturalmente non è l’unica modalità, si può lavorare anche su comunicazione, pensieri, energie… per migliorare il respiro, ad esempio. Ed è un lavoro che non finisce mai, deve essere in costante allenamento, armonizzazione e riequilibrio.

    Ma come può migliorare l’ascolto?

    Ti propongo di sperimentare, brevemente, due attitudini. Prima metti l’attenzione sul tuo sentire, sul tuo corpo, guardati allo specchio, ascoltati… scegli la modalità, tra queste, che preferisci, anche più d’una.

    Poi, prima attitudine, respira portando dentro poca aria, brevemente e ripetutamente, ovvero, fai tanti respiri veloci. Mentre li fai dov’è la tua attenzione, quanto vedi di ciò che ti circonda? Ti viene in automatico vedere intorno a te? Fallo per un minutino.

    Poi, seconda attitudine, fai dei respiri profondi, il secondo sempre un po’ più lungo del primo, ma senza aspettativa, con intenzione senti l’aria entrare nel naso e poi prima di sentire una tensione, inverti e butti fuori l’aria aprendo la bocca. Mentre lo fai, stai sentendo più suoni intorno a te? O si amplifica la visione periferica? Quella laterale? Se ti viene da chiudere gli occhi e li chiudi, senti aumentare la tua percezione interna?

    Se con il respiro profondo, anche tu, hai sperimentato un più facile ascolto dei suoni, o del vedere o del percepire, hai appena fatta tua l’importanza del respiro, nell’ascoltare e nell’ascoltarsi.

    La prossima volta che sei a un congresso, o che parli in pubblico, o che devi firmare un contratto – ad esempio – metti attenzione al tuo respiro, rallentalo e ascolta.

    Ascolta oltre il tuo abituale sentire.