Autore: Marco

  • Essere Guidati

    Essere Guidati

    Siamo guidati, non può essere che così.

    Stamattina mi sono alzato con questa sensazione, nata dagli ultimi 4 giorni. O meglio, consolidata negli ultimi 4 giorni, perché non credo che certe sensazioni possano nascere di botto, a meno di eventi traumatici, piuttosto ci arrivano gradualmente, a patto che ci dedichiamo a noi stessi con costanza.

    Essere guidati significa
    fare ancora meglio
    ciò che desideriamo
    nel profondo.

    Inizia venerdì. La settimana finisce con un’ultima sessione qui a DAIMON e la sensazione che sia stato tutto bello e tutto abbia fluito armoniosamente. Assaporata quella sensazione lì, eccone salire un’altra, di tutt’altra natura. Un involucro di ansia, che spesso arriva quando hai fatto qualcosa di sbagliato, inadeguato, non allineato a te. E non capisco. Non è coerente, con quanto penso del momento. Non posso farci niente, quel sentire permane, cerco di accoglierlo senza giudizio e osservarlo.

    A casa con Francesca, condivido il mio stato d’animo e provo a dare delle motivazioni, ma nessuna mi risuona veramente. E anche Francesca, che in quel momento, ascoltandomi con sincerità, mi fa da specchio, non mi restituisce qualcosa di assimilabile alla sensazione.

    La testa non comprende, so che va bene così, spesso non è il momento di comprendere, bisogna solo lasciare accadere e rimanere vigili, osservare, appunto.

    Quel fine settimana, con Francesca, abbiamo partecipato a un workshop sul Canto e la Voce Essenziale, organizzato da Vocal Essence®. Giovanna Mazzon, guida e mentore del metodo, inizia chiedendo “Vi ricordate il tema di questi due giorni?” e poi continua specificandolo “La Vergogna“. E io mi dico, “la vergogna, davvero? Non era un altro?” E poi lo ripete “La Performance“…

    -Ah, ecco!- mi dico, la performance, questo ha molto più senso, avevo capito male.

    Poi entriamo nella stanza lavoro e in cerchio ognuno condivide l’intenzione di lavoro con tutti i partecipanti. E lì mi rendo conto che la mia intenzione di lavoro è proprio la vergogna. Ed è esattamente la sensazione portata fuori da quell’involucro d’ansia, il giorno precedente.

    Qualcosa/Qualcuno – fin dal giorno precedente – aveva già iniziato a farmi lavorare nella direzione di questo seminario, e di ciò che necessitavo maggiormente, per fare un altro passo avanti nella riscoperta della mia voce essenziale.

    Il lavoro con Giovanna e tutti i partecipanti, insieme a Francesca, è stato profondo e trasformativo. E quando trovi la guida giusta per quel momento di vita, è naturale che sia così – non scontato, ma naturale. È stato particolarmente provante, perché sono tornato a stretto contatto con un “blocco vergogna” importante, sedimentato nelle memorie, sicuramente di me bambino, ma forse ancora più antiche. E mi hanno fatto sentire perentoriamente quella sensazione di essere sotto attacco, e se avessi sbagliato qualcosa, sarei stato colpito e affondato.

    E naturalmente ho sbagliato di tutto
    e non sono stato né colpito, né affondato.

    Ma ci sono momenti in cui
    sapere questo non aiuta,
    anzi rischia di allontanarci dalla difficoltà.

    Perché alcune difficoltà vanno attraversate anche nella loro assurdità di pensiero:
    quando questo è onesto e risuona con la sensazione che stiamo provando.

    Son felice di essere risuscito a starci dentro, ad abitare il sentire, anche a discapito della performance. Un sentire che chiamo vergogna, ma che va al di là del significato della parola stessa, e di ciò che ognuno di noi associa a quella parola, perché era una sensazione molto specifica e personale, molto più densa delle parole che io sarei in grado di trovare, per descriverla.

    Per tutto il tempo, la mia testa è stata insoddisfatta, ma gentile, mi ha permesso di lavorare al meglio e senza scappare. E nel viaggio di rientro, ho condiviso con Francesca le sensazioni, la difficoltà. E questa volta il suo ascolto attivo, mi ha fatto di nuovo da specchio, e la mia condivisione risuonava perfettamente con la mia sensazione.

    Il giorno seguente, ieri, il lavoro ha iniziato a sciogliersi e anche la testa ha potuto iniziare a comprendere. È stato bellissimo sentire che tutto è iniziato con un involucro di ansia e che il blocco vergogna, era un altro involucro e che sotto c’era e c’è questa parte di me, rattrappita come se venissimo accartocciati dentro una scatola per ore, se non giorni, che gioiva nel riprendersi il suo spazio.

    Il lavoro non è finito e non si è risolto completamente, ma stare in quel sentimento che mi viene da chiamare Vergogna, adesso significa anche stare insieme a quella parte di me che da un certo punto in poi non ha più potuto parlare, mentre da questo fine settimana ha rivisto il suo dono: la parola e la parola cantata.

    Mi son ritrovato ieri a cantare, con una nuova libertà e un nuovo piacere nell’ascoltarmi.

    C’è tanta strada da fare, e ce ne sarà sempre, ma se mi volto a guardare gli ultimi 4 giorni, posso solo pensare di essere stato guidato. E se ci rendiamo conto, che essere guidati, non significa non avere potere di scelta, ma piuttosto, significa

    fare ancora meglio
    ciò che desideriamo
    nel profondo.

  • Il potere del volere

    Il potere del volere

    Cosa ci muove all’azione?

    Potremmo pensare che sia la volontà a muoverci ad agire. E sarebbe meraviglioso, io voglio, io agisco. E se fosse così semplice e fossimo così onesti nel nostro sentire, non avremmo difficoltà a Star Bene nel nostro vivere. Avremmo probabilmente meno pesi, pensieri, rammarici, rinuncie, e così via.

    È una cosa semplice “voglio -> agisco” e semplice, spesso non è da tutti, non è facile.

    “Mamma esco con gli amici.”

    “Torna per le 22.00.”

    “Dai le 22, voglio tornare per l’1.”

    L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re! Ho detto 22!”

    “Ma alle 22 sono ancora tutti fuori facciamo almeno mezzanotte…”

    E così via, ciò che vuoi viene prima vagliato dalle regole sociali, di famiglia, quelle che poi ti crei da solo.

    Altro esempio.

    “Prof. posso andare al bagno?”

    “No! C’è appena stato l’intervallo,
    vuoi solo uscire a farti una passeggiata.”

    “E perché non posso farmi una passeggiata?
    Poi torno e faccio l’esercizio”

    Prima il dovere e poi il piacere!”

    Questo accade durante la nostra crescita, quando desideriamo qualcosa, ci viene insegnato a passare dal filtro del “posso e non posso”. E il volere qualcosa diventa “Posso volere quella cosa?” Sì, bene allora la voglio e agisco. No? Va bene allora mi sposto su un compromesso o su altro. Ma se era veramente la prima cosa, quella che volevo, quella che mi piaceva davvero, mi sarò spostato dal mio centro per cercare un compromesso, un’azione giusta, adeguata, sicura, condivisa, diligente, responsabile…

    Intanto mi allontano da me.

    A mia figlia ho chiesto “Si possono mangiare le patatine al bar?”, e lei mi ha risposto “Sì, ogni volta che si vuole!”.

    E quella è la chiave: “Ogni volta che si vuole“.

    Ci farebbe un gran bene lasciare andare il si può o non si può, si fa o non si fa, è giusto o è sbagliato… per dare spazio a “Lo voglio?”. Ma quel “Lo voglio” profondo, connesso con la mia essenza, l’anima, lo spirito. Quel volere le cose che mi piacciono per davvero e imparare a riconoscerle.

    Ogni volta che penso di volere una cosa, una situazione, una soddisfazione, dovrei fermarmi – almeno qualche secondo – e chiedermi “Perché la voglio?” e ascoltare la risposta, aprire verso la risposta, che parlerà con una voce sottile, flebile, sotto il brusio chiassoso dei pensieri più attivi.

    E quel perché potrà guidarmi.

    E non devo essere spaventato dalle risposte, perché se scavo abbastanza a fondo, sotto quel brusio, non avrò pensieri di invidia, vendetta, arroganza… non dovrò pensare se quella mia azione rispetta o meno l’altro. Perché in quello spazio c’è il rispetto per me stesso, per la vita, di conseguenza anche per l’altro.

    Voglio andare al mare. – Perché? – Perché è estate… ok, fermati, ascolta quel “perché” magari vuoi andare 3 giorni in un eremo, o una sera in discoteca, o partire per un viaggio solo con sconosciuti.

    Voglio andare al mare. – Perché? – Perché ci son nato al mare, e ogni volta che mi sento scarico, so che sull’arena, l’aria, la brezza, la salsedine mi ricaricano. E poi ho una domanda, che posso fare solo al mare.

    Allora vai, non aspettare nemmeno un secondo di più.

    Indagare il nostro volere, ci riconnette con il nostro desiderare e il nostro sognare. Forse volere non è potere, ma riconnetterci a quel volere profondo, essenziale, onesto – probabilmente – è ESSERE.

  • Quante realtà viviamo?

    Quante realtà viviamo?

    Naturalmente se cerchi una risposta a questa domanda, non chiedere a me. Perché scrivo naturalmente? Perché per me, non appena diamo una risposta a questa domanda, la riposta – per quanto corretta possa essere nel momento in cui l’abbiamo pensata – diventa sibillinamente sbagliata.

    Come in un gioco di calamite, quando cerchi di metterne una sull’altra, se l’altra è della stessa polarità cambierà posizione repentinamente. E se non ne conosci la ragione, ti sembrerà di impazzire perché ti dirai: “Ma era qua!”, “Ma era qua!”, “Hey ma era qua!”… È un gioco strano e in questo caso non ci è dato nemmeno di conoscere il meccanismo, possiamo arrivare forse a intuirlo o a intenderlo, ma senza la possibilità di farlo nostro in modo ragionevole e ragionato.

    In questi casi – per me – è molto meglio stare nella domanda. Altrimenti il contenuto dell’articolo sarebbe stato: “boh!”, ma forse sarebbe stato troppo breve…

    Allora provo a stare nel perché mi venga da indagare questa domanda. In primis, nasce da un fine settimana di formazione, all’interno del quale ci siamo proprio tuffati nel tema della multidimensionalità. E non a livello informatico o di realtà aumentata, ma a livello umano, universale e spirituale. Poi perché è un tema che mi sta abitando da un po’ di tempo, in un certo senso l’ho sempre avuto a cuore, e ogni incontro che mi permette di ritrovare un pezzettino di me, mi racconta qualcosa di nuovo e di eterno insieme.

    Tante belle parole vero? Ma in definitiva?

    Beh in definitiva niente, perché non c’è nulla di definito in questo tema, si intuiva all’inizio, no? Potremmo – forse – raccoglierlo in un aforisma poetico, che amo particolarmente:

    E ora fatemi filosofeggiare un po’

    Se l’incertezza è il clima della nostra anima e l’anima riverbera con l’anima del nostro bellissimo pianeta (e oltre), all’ora l’incertezza deve essere il clima dell’universo. A questo punto se tutto è incerto nulla è certo, ma se picchio il ginocchio contro il tavolo urlo dal dolore e questo è certo, allora se tutto è certo, nulla è incerto?

    E qui potremmo iniziare a intuire e intendere come – sul nostro piano duale – gli opposti siano spesso facce della stessa medaglia, dello stesso dualismo: luce-buio, bene-male, giusto-sbagliato… Così, se certo e incerto (che è la negazione di certo: in-certo) son due facce dello stesso dualismo, allora questa realtà ce la raccontiamo vedendola da una sola faccia.

    Se inizio a percepire l’altra faccia (ancor prima di raccontarla) ecco che si dovrebbero aprire altri piani di realtà, ma là dove ce n’è uno ce ne sono – forse – infiniti? E anche in-finiti (come negazione di finiti) è una faccia di quel duale che esiste tra finito e infinito, ma che è molto difficile afferrare con la parte razionale e logica del nostro ragionare. Meglio non farlo, potremmo impazzire e non è il caso, ma andiamo avanti.

    Allora la domanda: “quante realtà viviamo” diventa davvero interessante. Interessante più come indagine: come se diventassimo indagatori del dubbio, di quell’incertezza che mette in dubbio e apre. Apre a nuove realtà e ogni dubbio, al posto di dare nuove risposte e nuovi schemi, può dare nuovi piani di realtà e nuove incertezze. Così il nostro procedere diventa infinito, eterno.

    A un certo punto potremmo smettere di cercare risposte e conferme, e rimanere eternamente – appunto – nel divenire incerto di ogni attimo, ma quel giorno – forse – arriverà per chi non abiterà più questo corpo e questo tempo. Per noi, ben venga la fatica e a volte la paura, dell’incertezza – che in una nuova consapevolezza può essere vissuta, anche, con più leggerezza, ma va comunque vissuta.

    Se sei arrivato in fondo e la tua risposta rimane un numero definito di realtà, che sia una o più, va benissimo. Ci incroceremo nei piani comuni e ci lasceremo negli altri. Portando con noi quell’esperienza che ci ha resi e ci rende chi siamo.

    In fondo, nulla è per sempre, e solo questa frase – per me – è un potentissimo strumento di esistenza, ma te ne parlerò un’altra volta: promesso!

    Alla prossima.

  • Together – INSIEME

    Together – INSIEME

    TOGETHER WE CAN DO WHAT WE CAN NEVER DO ALONE

    Francesca, la donna che condivide con me il quotidiano e molto di più, al mio “vorrei farmi una tisana” risponde con, “ne vuoi una della Yogi?”… come facevo a rifiutare, sono le mie preferite. Così scava nella sua borsa e recupera questa bustina singola, presa da chissà dove. Metto su l’acqua calda, prendo, e leggo l’etichetta, perché so che YogiTea scrive sempre dei messaggi: “Together we can do what we can never do alone”: “Insieme possiamo fare quel che non riusciremmo mai a fare da soli“.

    Alzo lo sguardo, cerco gli occhi di Francesca, le mostro l’etichetta e attendo la sua reazione: qualche secondo per leggere e poi, sorride con gli occhi che brillano mentre incontrano i miei. Ci riconosciamo in quel sentire disarmato che non lascia spazio all’improvvisazione: “Quando i giochi si fanno duri, i duri iniziano a giocare!

    Sì perché dovete sapere che tra percorsi che stiamo seguendo insieme, trattamenti e carte canalizzate, il messaggio – declinato in vari modi – è sempre lo stesso, ovvero “bla bla bla … INSIEME“, “INSIEME troverete bla bla bla”, “se INSIEME allora bla bla bla wow!”. Insomma la parola chiave è, evidentemente INSIEMETOGETHER!

    Io sento che l’Universo mi parla: attraverso sincronicità, ciclicità, simboli, sensazioni, voci sottili, incontri, ecc. E so che negli anni ho smesso di credere a tutto questo, mentre a mio avviso da bambino son stato molto più connesso. Ma quando la vita vuole rimetterti qualcosa sul tuo percorso, trova il modo per farlo. E anni fa, grazie al teatro ho riaperto questo canale e l’ho coltivo a livello di percezione fisica. Negli ultimi anni ho aggiunto una consapevolezza più sottile ancora. I messaggi sono diventati più importanti e la difficoltà a maggiore, ma anche la meraviglia e la bellezza di quando questi puzzle iniziano a prendere forma. O a darti una direzione precisa.

    Ognuno di noi percepisce e comunica in modo differente. C’è chi è più portato a sentire voci, suoni, parole, chi invece nel vedere immagini, colori, chi a percepire con la pelle, gli organi del corpo e così via. Osservandoci – con mente da principiante – possiamo imparare quale parte di noi è più predisposta a ricevere, per aiutarci a creare un primo spazio di fiducia, in cui, successivamente, possono entrare anche gli altri sistemi. Naturalmente ognuno di noi ha il proprio bouquet. Personalmente sento molto con il corpo e la percezione, poi ho la visione, più raramente sento suoni o parole. Anche se col tempo e l’allenamento tutto prende più spazio, si amplifica.

    INSIEME poi mi richiama anche un’altra considerazione. Chi mi conosce da più vicino sa che amo stare da solo, e pur avendo questa necessità e propensione verso l’eremitismo – oggi un po’ meno – non potrei crescere se non abitando uno spazio condiviso con altre persone. Francesca in primis, i figli, la famiglia, perché è il mio quotidiano. Ma poi tutte le persone che la vita ti avvicina e che se siamo attenti riconosciamo come famiglia animica. Da soli non possiamo veramente evolvere, possiamo arrivare fino a un certo punto.

    Probabilmente sarebbe diverso qualora nel nostro percorso ci fosse la via per arrivare ad essere un Asceta, allora forse tanto tempo soli aiuterebbe. Ma non saremmo comunque soli, perché in quell’indagine individuale, saremmo connessi sempre più con la natura e gli elementi che ci circondano. Ma non avendo questa direzione, ad oggi, in questa vita, non sento di poter aggiungere altro.

    Ultima cosa: nel momento in cui l’Universo, attraverso i suoi simboli, incontri, allenamenti ecc. ti porta – e rimarca – un messaggio, ho imparato che conviene dargli seguito, sia nel bene che nel male.

    Perché il più delle volte possiamo non sapere esattamente tutti i motivi per cui accade qualcosa, ma se abbiamo ricevuto messaggi e sensazioni che confermano quella direzione, e sai nel tuo profondo che devi fare proprio quella cosa lì, i motivi passano in secondo piano e li comprenderai eventualmente dopo. Un po’ come si dice in teatro: Prima fai e poi capisci. Che è la stessa cosa che fa un bambino: prima impara a camminare poi eventualmente può capire come funziona la camminata; prima impara a emettere suoni e parlare e poi eventualmente può comprendere la grammatica che permette tutto ciò.

    Anche in questo caso:
    prima iniziamo a seguire i segnali che la vita ci dona
    e poi eventualmente comprenderemo la loro grammatica.

    Alla prossima!

  • Viaggiare

    Viaggiare

    Viaggiare.

    Per me, per anni, ha corrisposto ad un’attività riservata a pochi, o comunque a chi poteva. Ed io non ero tra quelli. Non mi ci sentivo. 

    Poi ho iniziato a esplorare il mondo vicino, con i limiti che le finanze mi chiedevano. Ma libero di creare il mio itinerario, di decidere all’ultimo, di meravigliarmi. E il viaggio non è più stato di chi se lo poteva permettere, ma di chi se lo concedeva. 

    Nel tempo ho percorso distanze sempre maggiori, a volte in solitaria, a volte in compagnia. E mai il valore dell’esperienza è stato legato al budget o al lusso che potevo raggiungere. Piuttosto al valore o alle restrizioni che personalmente ho percepito o di cui mi sono convinto. E il viaggio ha preso la forma di un cammino. 

    Sono stato fortunato fin qua, perché dentro alle esperienze, il più delle volte, ho percepito il bello. E quando non è stato così, il brutto mi ha aiutato a crescere. Magari non subito, spesso non subito, ma a un certo punto, a volte anche a distanza di anni, l’ombra del brutto ha evidenziato il valore del bello. Di allora, o di una trasformazione, o di adesso. 

    Questo ha portato il mio sentire a sapere che anche quando non sento il bello, non sono a mio agio, mi sale un fastidio, o addirittura la rabbia e così via, va bene. Posso permettermi di essere sbagliato, non corrisposto, diverso. 

    E nel tempo scopro come questo sentire cambi e faccia evolvere il bello intorno a me. Cambio nel mio parlare, nel mio pensare, nel mio agire, nel mio esistere. 

    Mi riconnetto anche, a qualcosa di più grande, che corrisponde al mio essere piccolo e che ritrovo nell’agire dello spirito. 

    E il viaggio diventa vivere, la vita, il mio divenire. 

    Marco

  • Cosa ci rende felici, oggi?

    Cosa ci rende felici, oggi?

    Sulla felicità potremmo parlare per il resto dei nostri giorni e scoprire sempre qualcosa di nuovo, capace di portare maggiore gioia nel nostro quotidiano. Per questo, quanto dirò in queste poche righe non potrà mai essere esaustivo dell’argomento. È un semplice punto di vista, un granello nell’arena dello star bene, del benessere, soprattutto per chi inizia a indagare questo spazio.

    La felicità e la gioia, sono luoghi in cui poter abitare per elevare i nostri pensieri e sentimenti e portare maggior benessere all’interno del quotidiano. Non è sempre facile, a volte impossibile perché dobbiamo attraversare una difficoltà, con la necessità di impararla, farla nostra, ma certamente può essere una bussola importante.

    Quando non siamo abituati a cercare la felicità e il pensiero positivo (che spiegherò meglio fra poco), rischiamo di vedere cosa c’è di sbagliato, cosa non funziona, cosa è peggiorato in una situazione, oppure la sua sfortuna, le avversità, i pericoli e le preoccupazioni, che porta. E questa modalità non ci aiuta a sintonizzarci con la gioia. Ci porta esattamente all’opposto, avvallando la credenza che la felicità sia effimera.

    Ma prima vediamo cos’è il pensiero positivo, visto sempre da questo punto di vista. È il pensiero di vedere la parte positiva di un evento, mantenendo la consapevolezza che esiste anche la parte negativa, e che positivo e negativo sono solo due poli, due cariche che noi diamo a un evento e non sono una migliore e una peggiore e abbiamo bisogno di entrambe: perché viviamo in un mondo duale, dove esistono due facce della stessa medaglia. Le parti negative se possono essere migliorate da noi, allora dovremmo prenderne atto e agire senza indugio, se non possiamo fare nulla direttamente, dovremmo lasciare ad altri, in fiducia. Le parti positive sono quelle che ci permettono di nutrire la nostra vitalità e farci crescere nella direzione che desideriamo. Non può essere tutto positivo, e il pensiero positivo non dovrebbe mai fare finta di niente rispetto a quanto noi consideriamo negativo, questo è importante. Dobbiamo usare ognuno di questi pensieri, per il nostro meglio.

    Perché farci guidare dai pensieri non positivi, cercare le parti che non funzionano, ecc. quasi mai è la via per star bene? Mettiamola così, se ho un problema e cerco la causa per risolverla, può andar bene, ma se di quel problema non so cercare la causa, ma so vedere tutte le avversità, senza poterle risolverle, tenere l’attenzione in negativo, non farà che far crescere quelle avversità nella mia mente e alla fine non vedrò nient’altro. Perché la mente è uno spazio finito e io seleziono cosa tenere in quello spazio, e ciò che seleziono mi condiziona. Per cui se porto alla mente i pensieri positivi, nutro quello spazio di gioia, di colori, di benessere e con molta probabilità andrò oltre, vedrò al di là del problema, scoprendo, spesso, una soluzione adeguata per me. Magari non del problema in sé, che abbiam detto non posso risolvere direttamente, ma del mio procedere sì.

    Se mi abituo a vedere in positivo tutto ciò che mi capita, se comprendo che nulla accade per caso e che per ogni evento c’è un mio passaggio necessario, allora avrò sempre più momenti in cui coltiverò gioia nei miei pensieri. E quando la mente pensa a cose felici, il respiro rallenta, e riempie i polmoni di ossigeno, i muscoli si rilassano, lo sguardo si apre, le labbra si distendono e noi riusciamo a sentire, percepire e raccontare di più e meglio.

    Un primo esercizio per chi desidera provare questo approccio è quello di fare spazio. Ogni volta che pronuncio qualcosa di negativo, come una semplice lamentela, o un’imprecazione, o una battuta sarcastica, mi fermo, faccio silenzio, respiro e mi chiedo “ho la possibilità di dire o fare qualcosa di concreto per agire una soluzione o una miglioria?”, se la risposta è sì, lo faccio e poi non aggiungo altro, e sposto i miei pensieri su altro. Se è no, smetto di parlare e sostituisco quel pensiero, e di conseguenza le parole, con qualcosa che per me è positivo. Relativo alla situazione o semplicemente cambiando discorso. E se non trovo nulla, sto zitto.

    Attenzione: se stare zitto mi fa aumentare la rabbia o la frustrazione, allora bisogna fare una fase di scarico prima. Ovvero dico tutto, mi lamento di tutto, tiro fuori tutto. Lo faccio con consapevolezza, sentendo se questa modalità mi porta a stare bene o se mi porta a volermi lamentare e arrabbiare di più. Di solito è la seconda, con questa consapevolezza in noi, possiamo poi iniziare l’esercizio descritto sopra.

    Una domanda che personalmente è stata importante per me, e che certamente non ho inventato io, ma che anni fa è arrivata da qualche dove, è: “Voglio avere ragione, o essere felice?“. È delicata perché di primo acchito può sembrare superficiale e arrendevole, ma è proprio in questa arrendevolezza, che io posso trovare la mia felicità. Magari prossimamente scrivo un articolo sull’arrendersi, un tema delicato e profondo insieme, e direi anche necessario al giorno d’oggi.

    Ma intanto proviamo a sperimentare la percentuale di pensiero positivo che riusciamo a mettere nel quotidiano e vediamo se nell’arco di un mese qualcosa migliora?

    Vi porto un esempio di due persone che abitano nello stesso quartiere. Uno è un carabiniere, mentre l’altra una poetessa. Il primo ha a che fare tutti i giorni con la delinquenza, ragazzi giovani in giri di droga o alle prese coi primi furti, gente ubriaca che fa incidenti in auto e così via; la seconda passa in silenzio a osservare le cime degli alberi, fa laboratori di scrittura con alcuni ragazzi del quartiere, medita e quando c’è occasione dà una mano al prossimo. Il primo ti racconta di come la città vada sempre peggio e che i giovani sono allo sbando, che nessuno rispetta più le regole e che si muore per ragioni futili. La seconda ti racconta di quanta speranza riponga nelle nuove generazioni, che ha conosciuto anime vive e che la natura è la nostra salvezza e che la vita è meravigliosa. E non dobbiamo pensare che il primo non conosca le parti belle della vita nel suo quartiere, ma in almeno metà della sua giornata vede solo le parti brutte. Mentre la seconda, sente al bar degli eventi nefasti che accadono, ma riempie almeno il 50% del giorno di poesia, silenzio e bellezza.

    Noi possiamo scegliere se essere carabinieri o poeti dei nostri pensieri. Non cambieremo come va il mondo, ma possiamo cambiare come andiamo noi nel mondo e avere una nostra bolla di realtà. Ma anche della bolla di realtà dobbiamo parlare in un altro articolo: è qualcosa di meraviglioso.

    Intanto se ti fa piacere, prova a sperimentare l’esercizio che ho scritto più sopra o semplicemente a portare queste considerazioni nell’osservazione del tuo quotidiano.

    Spero ti unirai anche tu a indagare come portare sempre maggiore felicità e benessere nel quotidiano.

    Ci sentiamo alla prossima!

  • Il Respiro e l’ascolto

    Il Respiro e l’ascolto

    Il respiro nella comunicazione è qualcosa di necessario e fondamentale. È necessario perché senza non saremmo in vita, tanto per cominciare, e poi perché è proprio il respiro che porta fuori il suono, non da solo, ha degli aiutanti preziosi, ma ne è il veicolo. È fondamentale perché se respiro bene, parlo bene.

    Quest’ultima cosa non è da sottovalutare, perché respirare bene è molto difficile, è un esercizio quotidiano.

    Ci siamo costruiti una società e una modalità di vita che fa di tutto per rendere il respiro più corto, mandarlo in apnea o affievolirlo, ad esempio, e questo non aiuta a parlare bene. Mentre se osserviamo i neonati, hanno un respiro perfetto. Il pancino si gonfia e quando piangono o urlano, li senti inequivocabilmente. E il suono arriva pulito e potente. Non li puoi ignorare.

    A questo punto dovremmo cominciare a concordare sul fatto che respirare bene, non è scontato e che necessita un allenamento, una consapevolezza e una volontà. E se arriviamo a risolvere tutti i blocchi del respiro, si sarà liberata anche la nostra comunicazione. Naturalmente non è l’unica modalità, si può lavorare anche su comunicazione, pensieri, energie… per migliorare il respiro, ad esempio. Ed è un lavoro che non finisce mai, deve essere in costante allenamento, armonizzazione e riequilibrio.

    Ma come può migliorare l’ascolto?

    Ti propongo di sperimentare, brevemente, due attitudini. Prima metti l’attenzione sul tuo sentire, sul tuo corpo, guardati allo specchio, ascoltati… scegli la modalità, tra queste, che preferisci, anche più d’una.

    Poi, prima attitudine, respira portando dentro poca aria, brevemente e ripetutamente, ovvero, fai tanti respiri veloci. Mentre li fai dov’è la tua attenzione, quanto vedi di ciò che ti circonda? Ti viene in automatico vedere intorno a te? Fallo per un minutino.

    Poi, seconda attitudine, fai dei respiri profondi, il secondo sempre un po’ più lungo del primo, ma senza aspettativa, con intenzione senti l’aria entrare nel naso e poi prima di sentire una tensione, inverti e butti fuori l’aria aprendo la bocca. Mentre lo fai, stai sentendo più suoni intorno a te? O si amplifica la visione periferica? Quella laterale? Se ti viene da chiudere gli occhi e li chiudi, senti aumentare la tua percezione interna?

    Se con il respiro profondo, anche tu, hai sperimentato un più facile ascolto dei suoni, o del vedere o del percepire, hai appena fatta tua l’importanza del respiro, nell’ascoltare e nell’ascoltarsi.

    La prossima volta che sei a un congresso, o che parli in pubblico, o che devi firmare un contratto – ad esempio – metti attenzione al tuo respiro, rallentalo e ascolta.

    Ascolta oltre il tuo abituale sentire.

  • Comunicazione Autentica

    Comunicazione Autentica

    Comunicare è alla base del nostro vivere, perché è il linguaggio e il sentire delle relazioni. E senza l’essere in relazione non credo che potrebbe esistere la vita per come la conosciamo. Coinvolge così tante cose che è difficile decidere da dove iniziare.

    C’è la voce naturalmente, lo sguardo, l’emozione, l’intenzione, il non-detto, lo stato d’animo, la relazione, i ruoli, la cultura, gli schemi mentali, l’intuizione, l’ascolto, il silenzio, le pause e potremmo andare avanti.

    Quando comunichiamo con un amico lo facciamo in modo diverso rispetto a quando comunichiamo con i suoi genitori, ad esempio. Se siete stati qualche giorno all’estero in vacanza, in genere comunichiamo in modo molto diverso rispetto a quando siamo nelle abitudini di casa nostra. E ancora, una persona di nazionalità giapponese comunica molto diversamente da noi europei e non parlo della lingua in senso stretto, ma della cultura.

    Ho fatto questi esempi per dare un contesto più ricco al senso del comunicare, così credo risulti evidente per tutti che comunicare non è solo parlare, dire qualcosa a qualcuno. Faccio un altro esempio, una scolaresca ha un’ora buca e inizia a schiamazzare e tirare palline di carta, a un certo punto il preside entra in aula, fa un solo passo dentro l’aula e non parla, rimane lì fermo, in piedi. Tutti i ragazzi si calmano, ci sarà quello che si ravvederà per ultimo, rischiando più di tutti, ma a un certo punto torna la quiete. Il preside esce. Ha comunicato e non ha usato la voce.

    Forse cominciamo a comprendere perché lavorare – allenarsi – sulla comunicazione può migliorare il nostro vivere, sia personale che lavorativo. Ma perché autentica?

    Faccio un altro esempio di vita vissuta. Anni fa sono andato in un centro Dharma a imparare la meditazione di Vipassana, 10 giorni in cui non puoi parlare per almeno 8, ti svegli mediti, fai pausa mediti, mangi, mediti, fai una passeggiata, mediti, fai pausa, mediti, ascolti il discorso del maestro, vai a letto, il giorno dopo ripeti. Non potendo parlare, quando entravamo nel tempio per meditare, ognuno faceva attenzione al suo posto, agli altri, alle sue coperte, si sedeva e via… dentro e fuori dai pensieri. Il nono giorno, per riaccompagnarci alla vita normale, in tarda mattina ci hanno permesso di tornare alla parola. Così nella meditazione del pomeriggio una persona della fila dietro sedendosi, ha chiesto a chi gli era davanti se ci stava o se doveva spostarsi. Ora seguitemi, se per otto giorni, sedendosi non ha mai avuto l’esigenza o potuto porre questa domanda, e non è mai servito porla al fine della meditazione, quella domanda nasceva e corrispondeva a un’esigenza onesta, oppure nasceva da un’esigenza distorta? O da un’abitudine? Sapete perché per imparare la meditazione di Vipassana chiedono di non parlare? Perché quando parliamo mentiamo. E non parlo di quelle bugie consapevoli più o meno cattive o innocenti, ma di quelle che non ci accorgiamo di dire, come nell’esempio sopra. Di quelle parole e di quella comunicazione che non risuona con la nostra essenza, e ne siamo ignari. Finché non iniziamo a osservarci e scoprirci.

    La comunicazione autentica lavora su ogni aspetto della persona, per andare a riarmonizzare il sentire, e la connessione, nell’intento di ricollegarci con la nostra essenza e di far corrispondere, il più possibile, i pensieri e le parole al nostro sentire autentico.

    Quali sono i vantaggi? Meno stress, meno pesi, meno fatica. Riusciremo ad essere più fluidi ed efficaci, ma sapremo anche goderci appieno le pause e i momenti di riposo. Vedremo più dettagli, potremo sentire meglio le nostre intuizioni, migliorerà il nostro ascolto e anche la capacità di farci comprendere dagli altri. Sarà più facile capire quando il nostro capo ci dice, “non preoccuparti a breve verrai ricompensato”, ma quella ricompensa non arriverà mai. Oppure riconoscere quando una persona è scortese con noi, ma solo perché in difficoltà.

    La comunicazione autentica ci aiuta a trovare quell’equilibrio tra la consapevolezza interiore e il valore negli altri, oltre ogni possibile giudizio. E saremo in grado di trasformare le aspettative in direzioni possibili, da lasciare andare non appena non ci appartengono più.

    Quando diventiamo talmente curiosi da allenarci tutti i giorni, per continuare a scoprire nuove parti di noi, ci verrà in mente la frase di Socrate “Io so di non sapere“, perché intuiremo che non si finirà mai di crescere e di scendere in profondità.

    Ma è uno degli strumenti più belli e profondi della cassetta degli attrezzi dello “Star Bene”, soprattutto quando si inizia a padroneggiarlo un po’.

    A DAIMON è possibile seguire il percorso di gruppo che si chiama proprio “Comunicazione Autentica“. Ha molti elementi del Teatro, della Vocalità, dell’espressione Corporea, ma anche dell’integrazione con le Energie Sottili e Invisibili che ci circondano e attraversano.

  • Star Bene

    Star Bene

    Chi di noi non desidera Star Bene, vero?

    Eppure a un certo punto della mia vita mi son reso conto che le azioni che agivo non erano coerenti con il desiderio di voler Star Bene. E non perché gli eventi esterni fossero avversi, anche se a volte lo erano, ma perché le miei priorità non davano la precedenza alla volontà di Star Bene.

    Ho dovuto allenare l’osservatore, il mio occhio esterno, e fare qualche passo per allontanarmi da me, e così ho potuto notare che dicevo di voler Star Bene, ma facevo di tutto e di più per andare nella direzione opposta. Ripetevo gli stessi schemi, usavo parole non gentili nei miei confronti, mi identificavo con emozioni logoranti, e così via.

    E non è stato facile stanarmi, perché ero in grado di stare per conto mio ed ero convinto di essere una di quelle persone capaci di Star Bene da sole. Invece essere in grado di passare del tempo senza vedere nessuno, non era sinonimo di Star Bene da soli, perché rimanevano i pensieri che mi logoravano, perché ero ancora dentro ai miei schemi che non nutrivano in modo sano le mie energie.

    A destarmi da questo torpore è stato inizialmente il teatro, soprattutto insegnare teatro. Abitare la scena come attore, ma ancora di più abitare l’aula come conduttore/regista mi ha costretto a dare ancora più spazio al mio osservatore e a riconoscermi nelle difficoltà dei miei allievi. Ogni volta che davo dei suggerimenti per entrare e trasformare una difficoltà, dovevo sforzarmi di cercare a mia volta e prima di tutti, una soluzione e per farlo dovevo allontanarmi dai miei schemi. E mentre gli allievi scoprivano nuove modalità, insegnavano a me quelle stesse modalità. E ho iniziato a vedere come la scena e il vivere fossero strettamente collegati. E più diventavo consapevole della scena e degli strumenti teatrali, più desideravo ritrovarli nel mio quotidiano.

    C’era però una differenza sostanziale che all’inizio mi metteva in difficoltà: in teatro, pur agendo azioni diverse, anche in contrasto tra loro, viviamo la scena per un obiettivo comune; nella vita, al contrario, possiamo avere obiettivi diversi, e il lavoro di osservazione, distacco, ascolto e azione pur rimanendo analogo, differisce significativamente.

    Un esempio semplice: se devo fare la scena dell’Amleto in cui alla fine muoiono tutti tranne Orazio, io come attore (ma anche come regista), avrò l’obiettivo di morire insieme agli altri (o di osservare inerme che tutti muoiono, se sono Orazio). Se questo dovesse accadere nella vita, invece, probabilmente scapperei fuori dalla scena, per sopravvivere.

    Ma un cosa era sostanzialmente uguale, l’onestà di rimanere in ascolto e in relazione – connessi – per riuscire ad agire la scena, o la vita, stando bene con se stessi.

    E questo Star Bene ha iniziato ad essere per me una priorità e mentre attraversavo il teatro, il teatrodanza, il canto, la meditazione, la scrittura, i trattamenti spirituali… riportavo tutto al desiderio di trovare un equilibrio consapevole tra il mio sentire autentico e l’agire senza giudizio. E questo equilibrio mi permette di sentirmi Star Bene anche quando si presentano sfide e difficoltà importanti. Non sempre riesco o ne sono in grado, ma sapere che ci sono, che ho degli strumenti adatti e di valore, mi permette di crescere sempre di più in questo mio intento.

    È un po’ come avere la cassetta degli attrezzi a casa per fare i lavoretti di manutenzione. A volte non ci riusciamo o non ci riusciamo subito, ma più ci impegniamo e più miglioriamo. Ma non potremmo mai riuscirci senza quella cassetta degli attrezzi, sappiamo di doverci attingere, ogni volta. Ecco la mia esperienza e ricerca degli strumenti per Star Bene mi ha permesso di creare varie cassette degli attrezzi, una per me e una per ogni allievo che mi ha dato fiducia. Perché ognuno di noi ha la sua modalità, i suoi desideri e le sue priorità. E perché man mano che ci personalizziamo lo Star Bene, personalizziamo anche la cassetta.

    A volte mi chiedo “Voglio avere ragione, o voglio essere felice?” questo è già un piccolo, ma potente, strumento da avere sempre in cassetta. Sempre che la nostra priorità sia lo Star Bene, se invece è l’avere ragione, allora non sarà lo strumento adatto a noi. Ne dovremo pescare un altro.

    Ad esempio, un altro strumento potente e semplice (che non significa facile) è il tenere a mente il desiderio di Star Bene, viverlo con priorità. Ogni tanto durante la giornata ricordarselo anche: “Star Bene” e adeguare le proprie scelte, le parole, i pensieri a quella priorità. Scoprirai che all’inizio continuerai a scordarlo. Ma intanto, se vuoi, prova a farlo per un’ora, poi un giorno e poi per due, e poi per una settimana, ed è probabile che ti capitino più coincidenze di quanto ti accada di solito. Coincidenze coerenti e in linea con il tuo significato di Star Bene. Se così fosse avresti scalfito un primo livello per scendere in profondità.

    Non ti resta che sperimentare, se vuoi.

    A presto,
    Marco P.

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